Coscienza (Bewusstsein)
La nozione di coscienza in filosofia
La parola coscienza soffre d’una ambiguità. C’è da una parte il significato morale (corrispondente tedesco: Gewissen), significato che si trova nelle espressioni tipo «avere buona o cattiva coscienza», «avere la coscienza tranquilla », «coscienza professionale», «obiezione di coscienza», «caso di coscienza». La coscienza, in questo senso, è la proprietà che avrebbe lo lo spirito umano di distinguere immediatamente e spontaneamente il bene dal male; per chi ne difende l’esistenza, la coscienza morale si manifestebbe tra l’altro sotto la forma della voce morale che proibisce o ordina, per la quale noi giudicheremo del valore morale dei nostri atti futuri, o a ritroso per la quale noi valutiamo i nostri atti passati, nella gioia (la coscienza «in pace »: soddisfazione morale) o nel dolore (il rimorso). Ma forse questa coscienza morale non ha niente di spontaneo né d'innato presso coloro che ne sono dotati: essa può essere quindi nient’altro che una interiorizzazione, nel caso delle educazioni morali riuscite, delle norme morali eteronome.
Il secondo senso è dominante in filosofia dopo Descartes, ed è a lui che le righe seguenti si limiteranno: corrisponde all'inglese consciousness e al tedesco Bewusstsein, e si trova nelle espressioni «avere, prendere, perdere coscienza» e deriva più nettamente dal latino scire che significa «sapere». Il problema filosofico centrale è precisamente del sapere ciò che effettivamente sa colui che «ha coscienza», in altre parole: quale conoscenza la coscienza ci dà, e quale ne è il valore
Descrizione della coscienza
«Che cos’è la coscienza ?» chiedeva Bergson. E rispondeva: «Voi pensate sicuramente che io non voglia definirvi una cosa così concreta, così costantemente presente all'esperienza di ognuno di noi» (L'Energia spirituale). La coscienza appare in effetti, in questo ambito, un dato immediato che sembra impossibile risolvere in elementi più semplici e dunque nel definirla senza petizione di principio. Non si saprebbe se spiegarla alla luce della formula «la coscienza è la conoscenza o l'intuizione che ha lo spirito dei suoi stati e dei suoi atti» o altre definizioni, poiché la «conoscenza» o la sua proprietà riflessiva (i suoi atti) suppongono la coscienza più di quanto i suoi atti stessi non la spieghino. Ma, non potendola definire, la si può almeno descrivere. Colui che perde coscienza perde così due cose: la conoscenza di ciò che gli è esterno, il mondo, e di ciò che egli è in sé stesso. Corollariamente, avere coscienza, è avere unitamente coscienza del mondo e di sé, ossia ogni riflesso della presenza del mondo in sé e della propria presenza nel mondo; la presa di coscienza infine (che sia essa quella d'un individuo, d’una classe sociale o d'un popolo), è ancora il riconoscimento dell'identità del suo esserci in una situazione obiettiva data. La coscienza non si esaurisce dunque né nella coscienza riflessiva di sé, né nella coscienza «transitiva », poiché essa è la relazione indissolubile che le lega entrambe. Tale è il dato immediato che s'offre all’evidenza.
La coscienza come prima certezza: il Cogito
È questo valore d'immediata evidenza assoluta che fa della coscienza, secondo Descartes, il primo anello di ogni verità nell'ordine della conoscenza. Per chi cerca in effetti «qualcosa di fermo e di costante nelle scienze» e ha dunque perciò metodicamente rigettato «tutte quelle cose che possono essere revocate dal dubbio » (Meditazioni metafisiche, I) «Io sono, Io esisto» apparve come la prima delle verità indubitabili, poiché essa sorge non contro il dubbio e a dispetto di esso, ma in seno e a causa del dubbio medesimo: più io mi sforzo nel dubbio in cui io sono, più la coscienza che ho di questo dubbio mi conferma la mia esistenza e mi preserva dunque dal dubbio.
La coscienza è dunque inizialmente coscienza d’una esistenza: la mia, «Io». Ma Descartes mostra in seguito, nella sua Seconda meditazione che si può pervenire all’essenza di questo Io così liberato e che egli stesso è il limite di questa coscienza stessa. «Cos’è dunque ch’io sono? Una cosa che pensa. Che cos’è una cosa che pensa? Una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina, e che sente.» Delle due tesi: da una parte, la coscienza è concepita come una sostanza, sussistente indipendentemente dal corpo e sussistente identica a sé quali che siano i suoi «modi » (percezione, immaginazione, giudizio, volontà, ecc.); d’altra parte, la coscienza e il pensiero sono concepiti come identici («Col nome di pensiero, io intendo tutto ciò che accade in noi in maniera tale che noi ne siamo coscienti, e purché noi ne abbiamo coscienza» - Ciò che toglie a priori ogni ipotesi di idea di pensiero inconscio. È contro l’una o l'altra di queste due tesi cartesiane che si sono elaborate la maggioranza delle concezioni successive della coscienza.
La coscienza è una sostanza?
Contro l'indipendenza della coscienza dal corpo si sono levati tutti i materialisti, a seguito di Gassendi, che obiettava già a Descartes: «Vi necessita provare che questo corpo grezzo e pesante contribuisce in niente nel vostro pensiero, benché tuttavia voi non siete mai stato senza di esso... e assumendo che voi pensiate indipendentemente da lui» (Quinta delle mie obiezioni). La coscienza è anche, secondo Gassendi, un effetto strettamente dipendente dal cervello. Contro l'elemento sostanziale della coscienza si sono levati tutti gli empiristi a seguito di Hume: «Ci sono certi filosofi che immaginano che noi abbiamo in ogni momento la coscienza intima che noi chiamiamo il nostro Io ... Per parte mia, io non posso cogliermi in alcun momento senza una percezione e non posso nient’altro considerare che la percezione» (Trattato della natura umana, I, 4, vi). La coscienza non mi restituisce mai un io puro e nudo, essa non è che un fascio d'impressioni. Ma è soprattutto la concezione fenomenologica della coscienza che sembra rompere definitivamente con la concezione cartesiana d’una coscienza-sostanza.
Riprendendo dal suo maestro, lo psicologo tedesco Brentano, il concetto d'intenzionalità, per Husserl infatti la caratteristica essenziale della coscienza: «È l'intenzionalità che caratterizza la coscienza nel senso forte». Per intenzionalità, occorre intendere «questa proprietà che ha il vissuto d'essere coscienza di qualcosa... Così una percezione è percezione, per esempio, d’una cosa, un giudizio è giudizio d'uno stato di cose: una valutazione, d'uno stato di valore; un desiderio poggia su uno stato del desiderio, e così di seguito» (Idee direttrici per una fenomenologia, I, 84). La coscienza così concepita non è più una cosa permanente nel tempo, chiusa in stessa e retta dal principio d'identità, ma sempre più una relazione, preambolo ad altro. Come dice Sartre: «La coscienza e il mondo sono dati in un solo atto». Così, «la coscienza s’è purificata, essa è chiara come un grande vento, non c’è più niente in essa eccetto un movimento per fuggire da sé, un’oscillazione fuori di sé; [...] perché la coscienza non ha "sein" (essere): essa non è niente fuori di se stessa, ed è questa fuga assoluta, questo rifiuto d'essere sostanza che la costituisce come una coscienza » (Situazioni, I).
La coscienza e le sue illusioni
È contro l'altro aspetto della tesi cartesiana che si sono levati tutti quelli che hanno rifiutato di fare della coscienza un mezzo affidabile, trasparente e immediato di conoscenza, che sia di sé o del mondo. All'identità del pensiero e della coscienza, Leibniz oppone la distinzione della percezione e dell'appercezione : «Non dico che se non concepisce il pensiero essa cessa di esistere ... Io dico di più: resta sempre qualcosa di tutti nostri pensieri passati e alcuni non sono stati mai cancellati completamente... Tutte le impressioni hanno il loro effetto, ma tutti gli effetti non sono sempre notevoli... In una parola, è una grande fonte d'errori credere che non c’è alcuna percezione nell'anima al di fuori di quella in cui ci si percepisce» (Nuovi saggi, II, 1). La coscienza non è dunque che una conoscenza parziale, e il pensiero la oltrepassa da ogni parte, che essa sia percezione, memoria o impressione. Ancora essa non è veramente traditrice per Leibniz, come lo è per Spinoza, per il quale la coscienza non è che un effetto (la coscienza è seconda in rapporto all’idea di cui essa è coscienza) e non una causa prima, ciò che non può mancare di farne un luogo d'illusione: credendosi fonte degli effetti - in particolare sul corpo - di cui essa ignora le cause, la coscienza si crede libera.
È questa stessa illusione che con significati differenti denunciano Nietzsche e Marx: per Nietzsche, «un pensiero non mi viene quando io voglio ma quando egli vuole»; la coscienza non è dunque, ancora una volta, che un effetto di cui nessuno è padrone, in ogni caso non l’Io; donde, «la coscienza dell’Io è l’ultimo tratto che s'aggiunge all'organismo quando funziona già perfettamente, essa è quasi superflua» (Scritti postumi). Anche per Marx, la coscienza è piuttosto prodotta che produttrice: essa è «un prodotto sociale e resterà tale per tutto il tempo che gli uomini esisteranno» (Ideologia tedesca); perché « non è la coscienza degli uomini che determina la loro esistenza; è inversamente la loro esistenza sociale che determina la loro coscienza» (Prefazione alla critica dell'economia politica).
Ma è Freud senza dubbio che, con la sua nuova concezione dell’inconscio, luogo non marginale ma centrale della vita psichica, che caccia la coscienza dal trono dove l'aveva messa Descartes. Tale sarebbe l’ultima delle tre grandi smentite che, secondo Freud, la scienza avrebbe inflitto all’ egocentrismo e alla megalomania umana: l'eliocentrismo copernicano aveva cacciato l'uomo dal posto centrale che egli credeva d’occupare nell'universo; l'evoluzionismo darwiniano dal posto che egli credeva essere il suo nell'ordine delle creature terrestri: ormai, «l’Io non è più solamente padrone in casa propria, è ridotto ad accontentarsi di informazioni rare e frammentarie su ciò che accade fuori dalla sua coscienza, nella sua vita psichica» (Introduzione alla psicoanalisi, III, 18).
L'approccio psicoanalitico della coscienza
La teoria metapsicologica freudiana assegna alla coscienza un ruolo essenziale nell’individuazione dei fenomeni psichici. Nella sua prima topica, Freud organizza attorno alla coscienza le tre istanze dell’Inconscio, del Preconscio e del Conscio.
La coscienza è legata a ciò che Freud chiama «il sistema percezione-coscienza». È una funzione periferica dell'apparato psichico che riceve le informazioni del mondo esterno e che le vengono dai ricordi e dalle sensazioni interne di piacere o di dispiacere. Il carattere immediato di questa funzione percettiva comporta una impossibilità per la coscienza di conservare una traccia durevole di queste informazioni. Essa le comunica al preconscio, luogo d’una prima messa in memoria. La coscienza percepisce tramite delle qualità sensibili. Freud impiega delle formule quali «indice di percezione, di qualità, di realtà» per descrivere il tenore delle operazioni del sistema percezione -coscienza.
Sul piano fattuale, la coscienza dispone d’una energia libera e mobile capace d'investire con maggiore o minore intensità gli elementi esterni o interni. È il meccanismo dell’attenzione. Sul piano dinamico, la coscienza interviene nel processo di pensiero, da intendere come reviviscenza dei ricordi, ragionamenti o elaborazioni a partire dalle rappresentazioni psichiche. Secondo Freud la presa di coscienza dei processi di pensiero dipende dalla loro associazione con dei «residui verbali» presi come nuove percezioni. È a questa funzione che egli fa appello nella cura analitica che si sforza di mobilitare gli elementi inconsci per ricondurli alla coscienza. Così il paziente potrà «per-laborare», ossia rilavorare questi elementi dopo la loro rammemorazione, la loro costruzione nell'analisi, la loro ripetizione nel transfert e la loro interpretazione da parte del terapeuta. Se la coscienza gioca un ruolo importante nella dinamica dei conflitti psichici (elusione conscia delle percezioni sgradevoli ), il suo ruolo nel meccanismo della cura resta un tema di grande di riflessione.
Cura, fine della (Ende der Analyse)
Secondo l'uso corrente, cura si definsice il «trattamento d’una malattia, d’una ferita, che ne determina la guarigione ». Ora si può parlare di «guarigione » in psicoanalisi ?
Freud e la fine della cura
A partire dagli esordi della psicoanalisi, il problema della fine della cura pone una domanda. Al momento stesso della scoperta d’un metodo - il quale avrebbe come esito la presa di coscienza del soggetto di ciò che determina il suo sintomo e dunque doveva avere come conseguenza logica la sua sparizione-, l'attenzione degli psicoanalisti fu subito attirata dal fatto che la scomparsa dei sintomi non è definitiva, e che essi possono riapparire, anche sotto una forma nuova.
Freud a questo proposito scrive nel 1937 in un breve testo (Analisi terminabile e analisi interminabile) che al momento in cui una cura psicoanalitica sembra andare verso la fine sorge frequentemente una resistenza più forte di quella che l’ha preceduta: «L'uomo non vuole sottomettersi a un sostituto paterno (l’analista), non vuole essere suo debitore, né vuole dunque, ancor più, accettare dal medico la propria guarigione». C’è in un uomo in analisi una sorta di «protesta virile» o ancora il rifiuto della «posizione passiva» verso l'analista. Quanto alla donna in analisi, la situazione non sarebbe più semplice, poiché ciò che la disturba, della fine dell'analisi e della soluzione proposta dall'analista, è «l’invidia del pene» che la pone in rivalità con lui. Nell'un caso e nell’altro, come dice Freud, l'analisi s'infrangerebbe contro la «roccia della castrazione», ciò che contribuisce ad allontanarne la fine.
Déjà-vu (l'illusione del)
Chiamata anche «falso riconoscimento», l'illusione del «déjà-vu» è il sentimento strano che si prova quando, vivendo un momento presente, si ha la convinzione d'avere già vissuto questo momento esattamente nelle stesse condizioni, d'avere già sentito, percepito e provato le stesse impressioni.
Il termine «déjà-vu» apparve nella letteratura psichiatrica nel 1868. È una esperienza molto banale e molto favorita dalla fatica, l'angoscia o la malattia. Gli adolescenti la fanno molto frequentemente.
Per la psicoanalisi, l'illusione del «déjà-vu» risulta da meccanismi di difesa quali la rimozione o lo spostamento di fronte a un evento traumatico e ansiogeno perl’Io. Questo sintomo costituirebbe dunque, allo stesso titolo che il lapsus o l’atto mancato, una formazione dell’inconscio. È in questo senso che Freud lo chiama in causa in Psicopatologia della vita quotidiana (1905).
Nel 1908, il filosofo H. Bergson gli dedica un testo celebre: Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance (1908). Egli attribuisce l'impressione del «déjà-vu» a un disturbo della memoria e della percezione legato a un indebolimento dello slancio vitale.
Alcune ricerche recenti sui meccanismi della memoria hanno proposto un modello di spiegazione ispirato dalla metafora d'un magnetofono avente due testine, une testina di lettura e una di registrazione, che si accavallerebbero in luogo di succedersi nel tempo e nelle loro funzioni.
(De) negazione (Verneinung)
È una attitudine per la quale il soggetto, pur formulando un desiderio, un pensiero o un sentimento fin qui rimosso, continua a difendersene negando che gli appartiene.
Questo processo porta il nome tedesco di Verneinung, e traduce inizialmente il termine “negazione”, in un suo senso logico o grammaticale. Ma il termine implica anche, nel senso psicologico, la denegazione, ossia il rifiuto del soggetto d’una affermazione che egli ha enunciato o che gli si imputa. In questa ultima accezione, la negazione implica dunque una contestazione. Quando Freud utilizza la parola (die Verneinung, 1934), l'ambiguità negazione -denegazione è già presente.
È nell'esperienza della cura analitica che Freud ha messo in evidenza il processo di (de)negazione. Ben presto egli incontrò, trattando le isteriche, una forma di resistenza particolare sulla quale s’esprime così: «Più si va nel profondo, più difficilemente sono ammessi i ricordi affioranti fino al momento in cui, in prossimità del nodo psichcico, si riscontra che il paziente nega anche la sua riattualizzazione » (Studi sull'isteria). Così, per Freud, la presa di coscienza del rimosso da parte del paziente è segnata proprio dalla (de)negazione : «Non c’è prova più forte che si è riusciti a scoprire l'inconscio che di vederere reagire il soggetto sottoposto ad analisi con queste parole: «Io non ho mai pensato ciò», o meglio «Io non ho mai pensato a ciò»».
Freud dà di questo fenomeno una spiegazione metapsicologica costituita da tre affermazioni: 1) «La negazione è un mezzo di prendere coscienza del rimosso»; 2) «Ciò che è soppresso, è solamente una delle conseguenze del processo di rimozione, ossia che il contenuto rappresentativo non perveniva alla coscienza. Ne risulta una sorta d'ammissione intellettuale del rimosso, mentre persiste l'essenziale del rimosso»; 3) «In mezzo al simbolo della (de)negazione, il pensiero si libera delle limitazioni del rimosso …», ossia l’indipendenza di questo simbolo riguardo al rimosso. «Ogni “ non”», dice Freud, «proviene dall’inconscio». Il riconoscimento dell’inconscio da parte dell’Io s’esprime dunque con una formula negativa: Freud nota che, nei sogni, un pensiero diretto in un senso ha, in essi, un pensiero diretto in senso opposto. A ciò aggiunge: «Non giungere a fare qualcosa è l’espressione del “non”.»
La negazione della realtà
Per Freud, è un modo di difesa del soggetto che consiste nel rifiuto di riconoscere la realtà d’una percezione traumatizzante, essenzialmente quella dell'assenza del pene presso la donna, per proteggersi dalla minaccia della castrazione. Freud descrisse questo meccanismo principalmente per rendere conto del feticismo e della psicosi .
A partire dal 1924, Freud comincia a descrivere questo meccanismo in relazione al complesso di castrazione. Sostiene che, di fronte all'assenza del pene nella bambina, i bambini «negano questa assenza, credendo malgrado tutto di vedere un membro…». Non è che pian piano che sopraggiungerà l’idea che l’assenza del pene è un risultato della castrazione. Così la negazione è descritta da Freud (Qualche conseguenza psichica della differenza anatomica dei sessi, 1925) in maniera identica per il bambino e la bambina<: «Un processo sopravviene che vorrei designare col termine di «negazione » (Verleugnung), processo che non sembra essere né raro né molto pericoloso nella vita psichica del bambino, ma che, presso l'adulto, sarebbe il punto di partenza d’una psicosi.»
A partire dal 1927, è principalmente sulla scorta del feticismo che Freud elabora la nozione di negazione (Il Feticismo, 1927): mostra come il feticista pesegua un’attitudine infantile facendo coesistere in lui due posizioni inconciliabili, la negazione nello stesso tempo che il riconoscimento della castrazione femminile, attitudine che costituisce una vera «scissione» (spaltung) in due soggetti .
Freud proseguirà in seguito la sua ricerca sulla nozione di «scissione dell’Io » (Ichspaltung) che andrà a chiarire quella di negazione (La scissione dell’Io nel processo di difesa, 1938, e Compendio di psicoanalisi, 1938). Così espone che le due attitudini del feticista consistono, d'un lato, a denegare la percezione dell’assenza del pene presso la donna e, dall'altro, a riconoscere questa assenza e a trarne le conseguenze angoscianti «persistenti lungo tutta la vita l’una a fianco dell’altra senza influenzarsi reciprocamente. È ciò che si può nominare una scissione dell’Io ».
Freud ci descrisse dunque, facendo perno sullo studio del processo di negazione, un meccanismo di difesa rispetto alla realtà esterna, preoccupazione presente in tutta l’elaborazione della sua opera, che si conferma in particolare nella sua concezione della nozione di «perdita della realtà» nella psicosi. L’idea di negazione s'inscrive in questo quadro e figura già in questo passo de «L'uomo dei lupi» (Casi clinici): «Alla fine sussistono in lui fianco a fianco due correnti opposte in cui l'una aborre la castrazione mentre l'altra è pronta ad ammetterla e a consolarsi con la femminilità come sostituo. Le terza corrente, la più antica e la più profonda, che aveva puramente e semplicemente rigettato la castrazione e nella quale non era ancora sorto il problema del giudizio sulla realtà di questa, è una corrente certamente ancora riattivabile».
La negazione comporta dunque un paradosso psichico per il quale questi soggetti di volta in volta sanno qualcosa e non la sanno, o non ne vogliono sapere nulla.
Desiderio (Wunsch, Begierde, Lust)
La nozione di desiderio nell'opera di Freud è determinante. Fondata su una concezione specifica dell'uomo, essa rimase difficile da valutare nel suo insieme.
Desiderio e sessualità
Dal 1895, la misconoscenza del proprio desiderio da parte del soggetto apparve a Freud come una causa del sintomo della nevrosi. Il suo lavoro con Charcot sulle pazienti isteriche gli aveva fatto presentire la presenza del desiderio, al di là dello spettacolo offertogli dai disturbi caratteristici di queste pazienti. È l’esame d’una tra di esse, Emmy von N., che lo mise sulle tracce di questo desiderio. Emmy von N. non supportava certe rappresentazioni: rospi, pipistrelli, lucertole, un uomo nacosto nell'ombra, tutte figure per lei mostruose che le apparivano tutt’intorno, e prendevano ogni volta l’andamento di eventi che scatenavano un traumatismo. Freud, nell'analisi, li ricollega a una causa: un desiderio sessuale. Desiderio socialmente inconfessabile, dissimulato dietro altre apparenze, facente irruzione nella realtà, proiettato su degli animali o dei pericoli, tutti esseri ai quali Emmy, da buona isterica, attribuisce la propria sensualità. Nell cura, lei pervenne a riconoscere che questo sentimento di paura era è in lei e che lei l’ aveva ignorato. Freud riuscirà a farle esprimere ciò che la tormentava, e a pervenire finalmente a una certa remissione dei sintomi. Il legame tra il desiderio e la sessualità fu così accertato, così come il suo riconoscimento tramite il linguaggio.
Il desiderio e l’esperienza di soddisfazione
È nell'elaborazione della sua teoria del sogno che Freud dispiega più chiaramente ciò che egli intende per desiderio. La sua definizione più completa fa riferimento a ciò che egli chiama l’ esperienza di soddisfazione (Befriedigungs-erlebnis): essa trae motivo dall'esperienza originaria che, secondo Freud, consiste nella soddisfazione, con il nutrimento, grazie a un intervento esterno (la madre), d’una tensione interna provocata dal bisogno (la fame). Secondo Freud, grazie al nutrimento, l'immagine dell'oggetto che reca la soddisfazione prende un valore decisivo nella costituzione ulteriore del desiderio del soggetto; essa non cessarà più, in effetti, di guidare il soggetto nella ricerca d'un oggetto atto a soddisfare il suo desiderio. Freud dirà perciò, a proposito d’una tale esperienza, che « l'immagine mnestica d’una certa percezione resterà associata con la traccia dell'eccitazione riveniente dal bisogno. Da qui, sopravveniente di nuovo il bisogno, si produrrà, grazie a ciò che fu inizialmente tracciato, una mozione psichica che cercherà di reinvestire l'immagine mnestica di questa percezione, e anche a evocare questa percezione, ossia a ristabilire la situazione della prima soddisfazione. Una tale mozione è ciò che noi chiamiamo desiderio» (L'interpretazione dei sogni, 1900).
Risulta da questa definizione qualche conseguenza: 1) Da una parte, il desiderio è differente rispetto al bisogno: se il bisogno trova soddisfazione e pacificazione nell'azione che procura l’oggetto adeguato, questa soddisfazione (il cibo, per esempio), il desiderio, è legato a ciò che Freud chiama «tracce mnestiche», al sapere delle tracce restate nella memoria del soggetto, e trova la sua soddisfazione piena nella riproduzione allucinatoria delle percezioni diventate i segni di questa soddisfazione; 2) D’altra parte, la concezione freudiana del desiderio riguarda il desiderio inconscio .
Difesa (la difesa in psicoanalisi) - Meccanismi di autodifesa - (Abwehr)
In psicoanalisi, la difesa è l'insieme dei processi, il più spesso inconsci, utilizzati dall’Io per mantenere la sua unità e la sua integrità contro i pericoli interni o esterni che lo metterebbero in causa.
I nemici dell’Io
Inizialmente applicata da Freud a una forma particolare d'isteria, la nozione di difesa, o meglio dei meccanismi di difesa, è diventata sempre più importate in psicoanalisi, al punto che si può definire questa come lo studio dei conflitti psichici in termini d'autodifesa. I pericoli contro i quali l’Io si difende possono essere esterni, perché la soddisfazione dei suoi desideri profondi rischia di comportare per lui delle conseguenze imbarazzanti dal punto di vista sociale. Ma sono in realtà sempre riducibili a dei pericoli interiori - le pulsioni inconsce - (istinto sessuale, istinto di morte), che essendo delle vere aggressioni interne provocano la perturbazione di tutto l'apparato psichico. Questi, nella concezione freudiana, si compone di numerose istanze: l’ Es, che rappresenta il serbatoio delle forze istintive inconsce; il Super-Io, interiorizzazione del soggetto degli impedimenti morali e sociali dovuti alla sua educazione; e infine l’Io, al quale è devoluta la funzione di sintesi. L’Io si difende dunque contro le pulsioni sconsiderate dell’ Es attenendosi agli imperativi del Super-Io e tenendo conto delle regole sociali in cui vive.
Lo scopo della difesa è dunque chiaro. È quello di mantenere, cona una serie di compromessi, l'unità sempre fragile della psiche umana. Si può considerare che ogni trauma è una rottura momentanea dell'equilibrio psichico, rottura che diventa durevole con il complesso e la nevrosi, se l’Io non perviene a mobilitare per tempo abbastanza riserve energetiche per ristabilire l'unità perduta. La cura psicoanalitica gli apporta, in questo compito, un aiuto esterno, in particolare grazie alle possibilità offerte dal transfert .
La strategia dell’Io
I mezzi che utilizza la difesa dell’Io sono i più vari. Nel libro che ad essi dedica, Anna Freud ne studia più di dieci (L’Io e i meccanismi di difesa, 1936). Il più corrente è la rimozione, che consiste nel rigettare e a mantenere nell'inconscio le rappresentazioni (ricordi o immagini, il più delle volte legate alla sessualità) la cui presenza all’interno della coscienza chiaramente non sarebbe tollerabile nella misura in cui esse s'oppongono al Super-Io del soggetto. La rimozione è un meccanismo universale che si trova all'opera presso l’individuo più normale, ma che può divenire fonte di nevrosi se le forze in atto sono importanti. In ogni stadio comunque, esige un certo dispendio d'energia psichica, è fonte d'angoscia e non risolve i conflitti, contentandosi di negare. Più grossolana ancora è la regressione, con la quale un soggetto, per sottrarsi alle difficoltà incontrate, ricade (inconsciamente) a un livello di comportamento inferiore, legato a un tappa superata del suo sviluppo psichico. Un bambino, per esempio, che parla normalmente, immesso nell’ambiente scolastico, si rimette a balbettare, a orinare nel letto, si mostra incapace di ogni attività scolastica, ecc. Una regressione s'osserva spesso presso il bambino fin dalla nascita, all’arrivo di un nuovo nato in famiglia.
Molto più sottile, e anche più frequente, è la proiezione, meccanismo per il quale un soggetto proietta tratti del carattere, desideri, sentimenti, che rifiuta più o meno consciamente d'assumere in un altro soggetto. Freud cita il caso del geloso che, ossessionato dal desiderio d'essere infedele, accusa la partner di tradirlo. La proiezione, che fa passare dall'auto-accusa all’ accusa, non è un meccanismo di difesa senza efficacia.
La sublimazione
Ma il meccanismo di difesa più efficace è la sublimazione. Consiste nell’orientare una pulsione (libido, aggressività) verso uno scopo differente dal suo scopo primitivo, in armonia con le norme sociali, religiose o morali del Super-Io. Una parte dell'energia sessuale, per esempio, specialmente nei suoi aspetti perversi, può essere deviata verso degli scopi socialmente utili come l'attività artistica o la ricerca scientifica. Le forme le più brutali dell'aggressività possono trasformarsi in spirito di competizione a dei livelli molto elevati: professionali, sportivi, culturali. Nelle sue ultime opere, Freud sostiene anche che la sublimazione è una sorta di prelievo operato dalla civiltà sull'energia istintuale degli individui per consacrarla ai compiti difficili della cultura umana, ciò che spiegherebbe l'esistenza d'un minimo di repressione degli istinti in ogni società. (Il disagio della civiltà)
Double bind
Termine inglese che si traduce in italiano «doppio legame». Designa una situazione nella quale un individuo è sottomesso simultaneamente a due messaggi o a due ingiunzioni contraddittorie di tal sorta che l'obbedienza all’una comporta la trasgressione dell'altra.
Questo concetto fu introdotto nel 1956 da Gregory Bateson ricercatore della Scuola di Palo Alto durante il corso d'un lavoro sulle famiglie degli schizofrenici. Bateson attribuisce un ruolo patogeno al double bind come modo di comunicazione frequentemente osservato tra il bambino schizofrenico e sua madre. L'esempio classico è quello della madre che manifesta dell'affezione per il bambino s'avvicina per abbracciarlo e, nello stesso tempo, lo respinge con un gesto brusco e ostile.
Il carattere patogeno risiede nell'esistenza d’una relazione di potere tra il bambino e la madre: il bambino non è in grado di rigettare o d'annullare i messaggi della madre. È incapace di discernere a quale dei messaggi deve rispondere poiché, in tutti i casi, è perdente: se risponde all'affezione della madre e si avvicina a lei, lei lo respingerà; se risponde all’ostilità della madre e la respinge, lei si colpevolizza e lo respinge ancora. Di più, l'assenza d'un terzo che potrebbe chiarire la situazione è un fattore aggravante .
Il double bind, ripetuto centinaia di volte nella comunicazione familiare, produce, secondo Bateson, un’ impossibilità per i l bambino d’apprendere il valore simbolico della comunicazione, e gli impedisce di distinguere il senso metaforico dal senso letterale dei messaggi, ciò che è tipico della psicosi.
... [continua]
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