Antonio Tabucchi - La testa perduta di Damasceno Monteiro - Feltrinelli, Milano, 1997, pagg.239.
Possiamo indicare quella che ci è sembrata la ricetta seguita da Tabucchi nello scrivere questo romanzo? Un po' di "situazioni tipiche" (Dona Rosa, la piccola pensione di Oporto, la trippa); un po' di personaggi troppo "indimenticabili"(Fernando de Mello); un po' di citazioni colte (da Flaubert, De Quincey, Améry, Hölderlin) diluite amabilmente nella narrazione allo scopo di uncinare il lettore ordinario "promosso" così nell'empireo dell'Alta Cultura (effetto Midcult, leggere il libro omonimo di D.McDonald ed e/o, vedi qui;) un po' di indagine alla Marlowe, per chi un minimo di intreccio ce lo vuole sempre. Il tutto condito con dialoghi sobri, descrizioni assennate, personaggi credibili, buon senso narrativo dispiegato ad ogni riga, e l'immancabile appello alla buona causa (ieri era l'engagement controvoglia di Pereira, oggi la simpatia irreprensibile per la minoranza gitana o la denuncia doverosissima della tortura nei commissariati).
Insomma, un tipico prodotto medio ineccepibile ed inattaccabile che da un lato strizza l'occhio al lettore semplice in cerca di qualche struttura narrativa forte (il meccanismo di risoluzione dell'inchiesta) dall'altro tende a soddisfare il lettore più informato con i suoi richiami "alti", per esempio alla Grundnorm di H.Kelsen, qui un po' troppo tirata per i capelli, a dire il vero, per farla diventare un fatto narrativo a pieno titolo.
Alla chiusura del libro non si hanno perciò grandi obiezioni da muovere, ma è vero anche che non ci si è sentiti scossi dalla rappresentazione di grandi momenti di vita, né irretiti dalla potenza di uno stile. Quando ci sembrerebbe di cogliere qualche varco nella circospezione redazionale dello scrittore, quando cioè ci coglie il sospetto che questo Fernando de Mello sia troppo surdeterminato da tratti positivi e tipici (un nobile fin-de-race obeso come l'attore inglese Charles Laughton che spende i beni del casato per abbracciare cause perse in partenza a favore dei dannati della terra etc), quando ci sembra di avere le prove che costui grondi umanità da ogni cellula di ciccia e che imbocchi nelle sue concioni i grandi boulevards della retorica, ecco ci viene in soccorso l'autore che gli mette in bocca frasi come queste: "E non mi costringa alla retorica - dice al protagonista Firmino - perché questa è retorica a buon mercato". Con ciò assumendo in sé ogni nostro possibile appunto. Un modo molto sottile scelto dall'autore per svicolare dalle proprie responsabilità di scrittore che sono quelle, non ultime, di darci davvero personaggi indimenticabili.
Antonio Tabucchi -Tristano muore - Feltrinelli, Milano, 2004
La morte dell’eroe
Vita e morte, verità e realtà, bene e male, eroismo e paura, quella paura che solo gli eroi possono conoscere ed un uomo, Tristano, che desidera raccontare la sua storia ad uno scrittore affinché ne ricavi un romanzo.
Tristano sul letto di morte racconta, nel delirio della morfina, la sua storia e la narrazione si trasforma in visione, in frammenti di tempo che perdono la loro dimensione reale per diventare sogno, memoria e delirio. I piani narrativi si intrecciano e si spezzano, le parole si confondono e diventano parte della storia stessa.
Cos’è la verità? Cosa la storia se, “di tutto ciò che siamo, di tutto ciò che fummo restano le parole che abbiamo detto, le parole che tu ora scrivi, scrittore, e non ciò che io feci in quel dato luogo e in quel dato momento del tempo”.
In questa opera Tabucchi compone, trasformando le parole in melodia, un omaggio alla scrittura, sovrapponendo i livelli dello scrivere e del vivere. Tristano sta morendo per una cancrena alla gamba e chiede allo scrittore che raccoglie, silenzioso, la sua storia : “ le cose appartengono a chi le dice o a chi le scrive? Tu che ne pensi? Pensaci pure, tanto a me cosa vuoi che me freghi a questo punto.” E ancora: “chi scrive per commentare la vita pensa sempre che il suo commento sia più importante di quello che commenta, anche se non se ne rende conto. Tu che scrivi sulla vita, che ne pensi?”
Ma considerare Tristano muore un’opera solo sulla scrittura sarebbe riduttivo.
I piani si intrecciano e i grandi temi della vita, di Dio, della verità, della guerra, del nazismo, della morte, del bene e del male scorrono come un fiume lento sul letto di morte dell’eroe, divenuto tale grazie al tradimento. Tristano uccide un ufficiale nazista, suo alleato, unendosi alla resistenza greca perché il bene possa vincere sul male, “ solo che c’è un po’ di male di troppo in quel bene e un po’ troppa imperfezione in quella verità… La verità è imperfetta”.
Tristano chiede e racconta, frammentario, come frammentaria, contraddittoria, oscura è la vita stessa. “ La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare…un po’ qua e un po’ là, come meglio crede, sono briciole, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene tutto? Togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola , si appiattisce e non ti resta altro che farci i ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme… e poi un giorno il dito si ferma da sé, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori.”
Tutto, tranne la morte, assume una dimensione relativa e la scrittura appare l’unica forma per vincere l’inevitabile, ma Tristano, ancora una volta, ci smentisce: “ non credo nella scrittura, la scrittura falsa tutto, voi scrittori siete dei falsari”.
Un romanzo prezioso, come poche opere riescono ad essere.
Erika Rigamonti